Tutte le immagini e i testi contenuti sono di proprietà esclusiva di Progetti di Solidarietà
Progettidisodidarietà.it
Aut viam inveniam aut faciam.
La squadra, il lavoro, l’esperienza
Bruno Detassis
Il gruppo di persone che ha preso parte negli anni a questa incredibile esperienza è
estremamente ampio e variegato.
Anziché spendere milioni di parole dirò soltanto che si trattadi persone eccezionali.
Personalità diverse con competenze e capacità diverse, ognuno con le sue qualità e i
suoi difetti,uniti da un obiettivo comune e da un legame che nel tempo si è
trasformato in una grande amicizia.
Negli anni ognuno ha trovato in modo del tutto naturale il proprio ruolo, la propria
posizione, i propri punti di forza e i propri limiti.
Durante i mesi di lavoro si è alternato in noi ogni genere di stato d’animo, sentimento
o emozione: entusiasmo, determinazione, stanchezza, preoccupazione, soddisfazione,
scoraggiamento, tensione, allegria, nostalgia, stupore, orgoglio, gentilezza,
solidarietà, e tanto altro.
Il lavoro è stato faticoso ma estremamente appagante: era sempre bello arrivare alla
sera stanchi morti ma con i risultati visibili di quanto si era fatto durante il giorno, con
un ottimo pasto ad attenderci cucinato dalle mani sapienti dello chef del ristorante
“da Silvano” (segnalato anche in google maps!), qualche gelida birra Safari, una
combriccola stanca ma col morale sempre alto, pronta a “contar qualche monada”, a
rallegrarsi e a bere un bicchiere in compagnia prima di andare
a dormire.
Ebbene, ognuno di noi, una volta tornato in Italia, a casa, alla vita di tutti i giorni,
sente la nostalgia di tutto questo.
La vita di cantiere, scandita da un sorgere e un tramontare del sole molto repentini e
senza grandi variazioni durante tutto l’anno poiché ci troviamo poco sotto l’equatore,
è stata intensa, inasprita dal caldo feroce delle ore centrali della giornata. La
squadra trentina ha però presto trovato un valido aiuto e una buona sinergia nei
giovani lavoratori del posto e tra qualche incomprensione e qualche imprecazione da entrambe le parti, insieme si è riusciti a completare di anno in anno le
fasi di lavoro prestabilite.
Al di là dell’evidente ostacolo linguistico (in realtà ci si capisce più di quanto si possa pensare), qualche “piccola” diversità culturale naturalmente è emersa:
l’energica efficienza ed organizzazione trentina di stampo austro-ungarico si è talvolta scontrata con la filosofia di vita di tutti gli abitanti della Tanzania: il
“pole pole”.
Se dovessimo dargli un significato letterale pole pole significa in swahili “con calma” o “piano-piano” e quando qualcuno si rivolge a te con questa espressione
per dirti che stai “correndo”un po’ troppo veloce, sfoggia generalmente un sorriso a 32 denti che ti mette improvvisamente di fronte a un bivio: incazzarti
oppure rispondere con un sorriso altrettanto aperto e pensare “massì, chissenefrega!”.
Pole pole è il ritmo con cui scorre la vita in Tanzania, sulle strade, nei villaggi, nella savana, sulla costa e sulle isole dell’Oceano Indiano; è il modo in cui si
dialoga, si condivide un pasto, si affronta un viaggio, si risolve una difficoltà. E non puoi che abbracciarlo ad un certo punto questo mantra perché
solo così puoi apprezzare tutta la bellezza del lasciarti andare, del vivere il presente, dell’abbandonarti all’ineluttabilità
dell’esistenza e del lasciare che il flusso degli eventi scorra senza cercare di dominarlo a tutti i costi.
E quando questo accade la sensazione è bella anche se per un attimo le priorità e le convinzioni che ci si porta da casa vacillano.
È curioso come un mondo così lontano e completamente diverso per non dire opposto a quello in cui viviamo possa esercitare una così forte attrattiva. Credo
che tutti noi che abbiamo vissuto questa esperienza lo sentiamo, più o meno forte, questo richiamo. È sicuramente la nostalgia del gruppo di amici, come
anche quella verso un luogo e verso le persone che lo abitano che ormai ci sono familiari; ma credo sia anche un legame che piano piano si è creato con una
terra che suscita emozioni forti, positive o negative che siano, che non ti lasciano mai indifferente; è una fascinazione verso un mondo in cui l’uomo al di là
della povertà e della miseria vive in una realtà quasi per nulla contaminata da un progresso esasperato che permea ogni aspetto dell’esistenza, ma dove
sussiste un rapporto con la natura e con gli altri uomini meno addomesticato, forse più libero e autentico.
La Tanzania pur rimanendo un luogo ancora afflitto da innumerevoli problemi di ogni sorta come la povertà, le carestie, i disastri ambientali, la situazione
sanitaria, i conflitti, la scarsa democrazia e la repressione di diritti e libertà fondamentali è una terra infinitamente ricca di bellezze, di paesaggi incredibili,
di risorse di ogni tipo e viaggiare attraverso il paese ti mette continuamente davanti agli occhi tutto questo,
senza alcun preavviso, talvolta in modo brutale.
Ma amare la Tanzania e amare l’Africa immagino significhi, pur con un certo spirito critico, prendere tutto il pacchetto: i suoi frutti più dolci e succosi che
suscitano stupore e meraviglia e quelli più acerbi che generano repulsione e ti vanno di traverso; perché quando il richiamo di quel mondo lontano ma non poi
così tanto, arriva, reclama ogni cosa; ma soprattutto brama la vista degli spazi sconfinati e selvaggi della savana, delle piste polverose di terra rossa, l’allegria
dei bambini, la luce dell’alba e del tramonto, il sapore della frutta appena raccolta e quello della carne appena macellata, gli sguardi curiosi della gente,
l’odore di cibo preparato lungo le strade, i cieli notturni senza inquinamento luminoso, le bestie selvagge, i colori dei kanga, le costruzioni tradizionali...
quando questa terra ti chiama insomma, è difficile frenare il desiderio di ripartire.